PITTOGRAMMI E IDEOGRAMMI DELLA GROTTA DEI CERVI DI PORTO BADISCO di Marisa Grande

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a cura del dott  Giovanni Grecopreistoria

PITTOGRAMMI E IDEOGRAMMI DELLA GROTTA DEI CERVI DI PORTO BADISCO

di Marisa Grande

La crisi prima della rinascita
Il ciclo pittorico composto da figure schematiche e geometrizzanti, che non hanno un diretto rapporto con forme reali riconoscibili e che pertanto sembrano non avere senso, suggeriscono l’idea di essere espressioni derivate dall’inconscio degli individui che frequentarono la grotta di Porto Badisco e che per primi lasciarono le loro tracce pittoriche sulle sue pareti.
L’accostamento con l’espressione schematica di origine europea centro-orientale, i dipinti in negativo delle mani, apposte sulla volta di un ambiente interno della cavità, per lasciare traccia della propria presenza in loco, come nelle grotte-santuario paleolitiche, secondo una pratica ascrivibile alla cultura cro-magnon dell’area franco-cantabrica, ci ha permesso, però, di attribuire la produzione dei primi pittogrammi alla composita comunità di genti centro-europee, continentali e atlantiche, scampate alle devastazioni ambientali, aggregate e poi rifugiate in ambito mediterraneo, convenzionalmente denominate “romanelliane” agli inizi del Novecento.
Se consideriamo quelle immagini provenienti dagli strati profondi di una psiche appartenente a uomini provati da eventi che soverchiavano la portata della loro capacità di controllo razionale, così da dover emergere allo stato di coscienza solo per poterle rappresentare con fare concitato in tracce iconiche apparentemente inconsulte e incomprensibili, ma con funzione di richiamo e monito per chi lo volesse intendere, ecco che quei segni assumono significato concreto anche per noi.
Se consideriamo quelle pareti della grotta come schermi muti, eppur accoglienti e assorbenti le energie delle tensioni interiori di quegli uomini, avviene poi che, come immagine riflessa da uno specchio, le stesse energie provenienti dai moventi dell’anima di quell’umanità, ci coinvolgono e anche noi ne diveniamo partecipi in nome dell’universalità dell’essere che ci accomuna ad essi, nostri progenitori.
Se consideriamo quelle forme a “riccio” a “gorgo”, a “vortice”, a “meandro”, quei “grovigli” e quegli “arabeschi”, quelle figure “cembaliformi”, “serpentiformi” a “clessidra”, “stelliformi” “cruciformi” … come immagini istintive richiamanti eventi vorticosi di una realtà climaticamente instabile, comprendiamo che quel linguaggio iconico estemporaneo ed elementare ci appartiene, perché derivato dai momenti in cui la natura turbolenta sconvolge la quiete delle nostre vite.
Se risaliamo invece all’origine delle immagini, concepite come “simboli di vita” associate a forme di carattere rigenerativo come il “grembo materno”, ci accorgiamo che quegli uomini si sono avvalsi comunque di un repertorio noto di rappresentazioni ideogrammatiche, elaborate in una forma espressiva colta ed elitaria, appartenente al linguaggio schematico e apparentemente astratto che affondava le proprie radici nell’antica concezione cosmologica, elaborata nei lunghi millenni della fase
glaciale del Paleolitico.
Se viste anche come espressione istintuali, sollecitate da adulti, per farle emergere in fase di “formazione iniziatica”, quelle immagini della grotta di Badisco contengono in sé tutte le potenzialità delle azioni che un adolescente può aspirare a svolgere prima che le sue capacità razionali interferiscano, quale meccanismo ordinatore ma anche inibente, sulle sue intenzioni e sull’attuazione delle sue azioni future.
In entrambi i casi, sia che si tratti dell’adulto inquieto, sia dell’adolescente sottoposto alle prove iniziatiche, le energie impresse nel segno premono dall’interno della psiche dell’essere come condizioni di urgente e immediata necessità a volere agire, se pur caoticamente, non ancora ordinatamente, nel mondo.

La riscoperta dell’energia compressa nel linguaggio iconico primordiale
Ci hanno provato poi gli artisti dell’età moderna, pur non potendo conoscere la produzione pittorica della Grotta dei Cervi di Porto Badisco, scoperta nel 1970, a cogliere nella loro arte l’esplosione dell’energia compressa nei segni di tipo nucleico, embrionale.
Ci provò Kandisky, suggestionato dalla notizia della scissione dell’atomo a risalire all’originalità e alla valenza semantica dell’archetipo “scarabocchio del bambino”, nucleo fondamentale della forma, concentrato dell’energia potenzialmente, esplodente come la musica atonale dodecafonica di Schomberg, che colpì l’artista per la sua dissonanza e per la sua dirompenza, come dirompente e dissonante gli doveva apparire l’energia compressa dell’essere dei primordi, quella che gli forniva gli esempi per rinnovare il linguaggio dell’arte con le sue prime forme di astrattismo.
Ci provò Capogrossi a reiterare in automatismi quieti, ma non meno intensi, segni ritmici replicanti, in una chiave musicale meno ardita, ma più intensamente connaturata con gli esseri di un’umanità unita per complementarità di espressioni e di forme archetipiche, organizzate sull’universale ritmo del battito cardiaco che accomuna tutti gli esseri viventi.
Ci provò anche Munch, per un altro verso, a urlare al mondo intero quanto intenso può essere il dolore straziante compresso nell’intimo dell’animo umano, nell’urlo potenziale, inespresso e inascoltato, dell’uomo del suo più noto dipinto, denominato “l’urlo”.
Ci ha provato anche Bacon, più recentemente, a comunicare a suo modo l’incomunicabilità e la sofferenza di un uomo che ha offeso se stesso offendendo la natura, danneggiata da un’umanità oramai deformata e dilaniata in corpi disumanizzati, che in essa non si riconosce più e che ad essa non può più ricondurre le sue richieste di soli autentici bisogni, a comunicare che il caos inserito nell’armonia del cosmo è esponenzialmente disturbante, che la “giusta misura” nelle azioni, comprese in quello spazio limitato di libero arbitrio concesso da Dio all’uomo, è difficile da poter calibrare.
L’inquietudine che trapela dalle prime tracce pittoriche nella Grotta di Badisco deriva da un’umanità che deve ricominciare il suo percorso in un mondo irriconoscibile secondo i canoni fino a quel momento acquisiti dalla sua psiche acquietata e adagiata in una lunghissima fase di stabilità ambientale glaciale.
Quel richiamo ancestrale, però, ci appartiene perché ha contribuito a comporre un repertorio di “archetipi” che circolano nella profondità della nostra anima, che la nostra psiche ha acquisito prima di nascere, in quella fase che Platone chiama “reminiscenza”, dove l’essere umano incontra Dio, che riconosce essere in sé come scintilla divina, come luce che rischiara il suo cammino, ma dove ha potuto vedere anche l’horror del suo contrario, il malessere che deriva da non saper cogliere quella luce, pur generosamente donata a tutta l’umanità di ogni tempo.
Per questo molti di quei segni rappresentano espressioni urgenti, che emergono come sprazzi di luminosità quando l’uomo subisce condizioni di deprivazioni sensoriali, stati disumanizzanti di alterazioni indotte della coscienza, sottomissione a violenze, vessazioni che inducono al dolore fisico e psichico.
Questo ci comunicano quelle “immagini urlanti”, di superstiti spaventati da calamità naturali o di adolescenti sottoposti a prove iniziatiche soverchianti le loro capacità di reazione necessaria ad opporsi all’horror dell’inconosciuto e trovare nel profondo della loro anima i moventi necessari a “rinascere” da uno stato di coscienza alterato e subente.
Quei segni, attinti ai simboli meglio elaborati in fase paleolitica, ma contenenti in sé i medesimi significati a loro noti, ci giungono pertanto come moniti e si giustificano di fronte alla nostra mente solo se accogliamo il messaggio di affrancamento da quello stato alterato e concitato, per risalire verso la luce della rinascita.

Dall’horror all’aurora
In quelle condizioni solo una figura carismatica, sacerdotale, dotata di grande fede poteva prospettare la dinamica di elevazione verso la fase della rinascita, poiché la maggior parte della compagine sociale che abbiamo visto appartenente a quella società composita, denominata “romanelliana”, non aveva né la calma, né il bisogno di descrivere con figure comprensibili alla vista lo stato concitato del momento che stava vivendo. Aveva solo la necessità di attingere al carattere iconografico più espressivo del proprio stato d’animo, quello che riusciva a meglio comunicare e a dare un senso a l’inquietudine e al proprio stato di disagio.
Furono gli uomini carismatici, sacerdoti-astronomi, edotti nelle dinamiche celesti, presenti tra i sopravvissuti di quel passaggio di era e riparati nella grotta di Porto Badisco, che rappresentarono Orione, l’Antropomorfo celeste, in posizione stante, offrendo alla comunità spaventata dal caos post-glaciale un punto di riferimento certo per l’auspicata stabilità celeste e terrestre.
Quei primi frequentatori della grotta di Badisco, pur esprimendo per immagini tutto il loro disagio interiore e facendo riverberare con i segni dipinti l’energia compressa del loro “grido”, trovarono in Orione la guida necessaria ed ebbero la forza di affidarsi a colui che meglio riusciva a rappresentarli e a proteggerli con tutta la calma necessaria a controbilanciare i loro agitati moti interiori di gente in balia del panico generato dal caos.
Già l’elasticità insita nelle curve dei segni significanti della grotta di Badisco (gorghi, spirali semplici e doppie, curve chiuse a “digitale” o aperte ad “u”) rimandava, però, alla più ottimista evolvente, che prospetta un’azione proiettata nel futuro di una rinascita ciclica. Quei segni facenti parte della prima produzione pittorica assumono pertanto anche un significato profetico.
La figura di Orione, stante e in una posizione equilibrata espressa dall’orientamento opposto delle spirali che completano i suoi arti superiori e inferiori, appare infatti ben bilanciato, come appariva nel suo percorso nel cielo, nel pittogramma che lo rappresenta alla fine del terzo corridoio della grotta.
Le due spirali opposte tracciate al di sotto dei suoi piedi, se lette anch’esse in chiave astronomica, corrispondono ai frammenti della figura serpentiforme della costellazione Eridano, emersa all’orizzonte del nuovo scenario astrale dalla profondità dell’abisso australe celeste.
Secondo la mitologia stellare, nella lotta ingaggiata con il serpente prevalse Orione, l’ordinatore dei cicli cosmici, il Signore degli animali del cielo, corrispondenti alle costellazioni zoomorfe turbolente.
Le due essenziali spirali opposte, frammenti estremi della figura serpentiforme vinta, diventano semplici determinativi dell’Antropomorfo celeste, simboli apotropaici dell’auspicata stabilità ambientale. Egli rappresenta il “Signore della rinascita” nel passaggio dal Pleistocene all’Olocene, la mitica figura di vincente sul caos prodotto dalle turbolenze naturali post-glaciali, miticamente attribuito alle intemperanze delle rotanti costellazioni zoomorfe.
Orione rappresenta il simbolo della “rinascita” se riusciamo ad intendere con la giusta chiave di lettura anche le forme e il senso delle successive figure veriste dipinte da genti provenienti dall’area scandinava nel VII millennio a. C, rappresentanti le scene rituali di carattere venatorio con Orione in forma di arciere. Sono produzioni di un’altra cultura, dipinte in tempi di maggior quiete con essenziale schematicità e con intenti didattico-dimostrativi, per far conoscere la storia astronomica posta all’origine della formazione dei miti e delle religioni astrali.


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